Articolo 75 Billions Of Years In The Future
David Bowie. "75 Billions Of Years In The Future" by Paolo Rosati
“Il 1977 é l'anno fondamentale per la carriera artistica di David Bowie e per tutto il mondo del rock in generale. Il punk scuote l'albero della scena musicale rock dalle radici e cadono tutte le foglie appassite del moribondo progressive e degli ultimi sparuti superstiti di Woodstock.
La rivoluzione era iniziata in verità anni prima, quando il glam rock e la musica elettronica tedesca aveva disegnato nuovi orizzonti sonori e di costume a cavallo di due decenni.
Artisti come Klaus Schulze, Edgard Froese, Iggy Pop, Brian Eno e Robert Fripp, gruppi come i Kraftwerk, Tangerine Dream, Neu e Can sono stati gli ispiratori e i partner della tetralogia del 1977, mi riferisco alla formidabile sequenza di album "Low"-"The Idiot","Lust For Life"-"Heroes", usciti in quell'anno nello spazio ristretto di soli nove mesi.
Klaus Schulze era stato il grandissimo innovatore della scena musicale teutonica, fino dalla fine degli anni sessanta, attraverso le collaborazioni con i Tangerine Dream, attraverso l’album del debutto “Electronic Meditations” e con l’ingresso nel gruppo “Ash Ra Tempel”. A queste due importanti partecipazioni sarebbe poi seguita una carriera solista eccezionale e assai prolifica, partita nel 1972 con i capolavori “Irrlicht” e il monumentale “Cyborg”.
I Tangerine Dream, a loro volta, proseguiranno il loro cammino investigando le sonorità più suggestive, attraverso un ideale viaggio fra le stelle e le galassie, all’insegna di un’avanguardia che spingeva le sue frontiere oltre le barriere del nostro immaginario planetario, elevando all’ennesima potenza le lezioni di Stockhausen, proiettando il proprio progetto verso una vera e propria cavalcata cosmica senza frontiere. Album fortunati come “Phaedra” e “Stratosfear” avrebbe incontrato anche il favore del grande pubblico del rock, riuscendo così nell’intento di allargare il bacino di utenza della musica di avanguardia.
Lo stesso discorso vale per i Kraftwerk, il cui territorio di investigazione è il nostro pianeta, e i suoi soggetti vengono presi dalla vita quotidiana.
Album come “Ralf & Florian”, “Autobahn”, “Radioactivity”, “Trans Europe Express” sono altrettanti capolavori di sintesi e traduzione musicale compiuta con la musica elettronica del mondo reale che ci circonda. “The Man Machine” e “Computer World” sono sguardi futuristici che disegnano paesaggi in cui l’uomo e la macchina si sono fusi indissolubilmente.
I Neu e i Can rielaborano il linguaggio del rock d’oltremanica e lo fanno proprio attraverso le loro variazioni. Se i primi costruiscono brani dove l’elettricità viene compressa in schemi e ritmi senza alcuna sbavatura, come se l’avanguardia volesse dare vita ad una nuova classicità, i secondi danno vita a vere e proprie odissee elettriche, in cui il rock si fonde con la recitazione di lunghi monologhi, sullo sfondo di una musica che si fa totale, un vero e proprio muro del suono elettrico, reso manifesto dal capolavoro del gruppo “Tago Mago”.
La Gran Bretagna tasta il polso all’avanguardia più estrema attraverso le opere di due geni.
Brian Eno e Robert Fripp danno vita ad una collaborazione estremamente fruttuosa, che durante la metà degli anni settanta produce due album monumentali e incredibili, “No Pussyfooting” e “Evening Star”. In questi due lavori la chitarra di Fripp e le tastiere di Eno danno vita ad una musica che non ha precedenti in alcun disco registrato fino ad allora. Atmosfere dilatate, giri di chitarra reiterati, note cromatiche che salgono e scendono, il tutto in un gioco di suoni che illuminano di bagliori alieni il pentagramma musicale del duo britannico.
Del resto Robert Fripp era reduce dall’esperienza meravigliosa dei King Crimson, con cui aveva registrato sette album capolavoro, degni di rimanere nella storia della musica rock per sempre. L’ultimo disco, “Red”, registrato con un gruppo ridotto a soli tre elementi, aveva unito la musica d’avanguardia al rock più duro ed elettrico, dando vita ad un capolavoro esaltante, tanto bello da ascoltare quanto interessante da studiare.
Dal canto suo, Brian Eno, aveva debuttato con i Roxy Music, vestendo i panni di un’iconico personaggio glam, dal viso pesantemente truccato e dall’abbigliamento vistosamente femminile. Il suo “trattamento” alle canzoni scritte dal leader del gruppo, Bryan Ferry, donava alla musica del complesso una scossa elettronica e futurista formidabile. Con i Roxy Music Eno aveva registrato e arrangiato i primi due album, “Roxy Music” e “For Your Pleasure”, dischi che sarebbero rimasti per sempre come due manifesti del glam rock di quegli anni.
Terminata la collaborazione con i Roxy Music, Eno aveva abbracciato il rock, decodificandolo da par suo, attraverso due dischi formidabili, “Here Come The Warm Jets” e “Taking Tiger Mountain By Strategy”, che ridefiniscono il genere, rivoltandolo attraverso arrangiamenti dove la musica elettronica plasma sonorità in anticipo di un lustro sulla New Wave. L’evoluzione degli interessi di Eno porta il compositore britannico a rompere gli schemi tradizionali fra i generi, attraverso due album incredibili, come “Another Green World”, dove rock, jazz ed elettronica danno vita a un collage musicale inedito, e soprattutto come “Discreet Music”, dove la musica d’avanguardia disegna una lunga piece di sonorità crepuscolari che rimandano a orizzonti dove terra e cielo si incontrano in un punto posto verso l’infinito.
“No Pussyfooting” e “Evening Star” fanno apparire vetusti gli sperimentalismi dei gruppi progressive, che proprio verso la metà degli anni settanta gettano la spugna nel proporre innovazioni e sperimentazioni, dedicandosi con maggior impegno verso la composizione di musiche sempre più elaborate, tecnicamente perfette, talvolta però prive di un’anima vera.
Dopo la metà degli anni settanta, infatti, esplode il furore della musica punk. I giovani sono arrabbiati, danno sfogo alla loro frustrazione imbracciando chitarre elettriche che suonano come fossero picconi scagliati contro lo star system. Pochi gruppi vengono risparmiati dalla loro critica feroce. Altri vengono riscoperti, come propri ispiratori e antesignani. Uno di questi gruppi riscoperti sono gli Stooges di Iggy Pop.
Il rocker di Detroit era stato riscoperto da David Bowie, che nel 1973 lo aveva preso sotto la propria ala protettiva, aiutandolo nella pubblicazione di un nuovo album “Raw Power”, che non aveva però colto nel segno, non riuscendo a sfondare, e rimanendo comunque un disco di nicchia.
Durante la metà degli anni settanta David Bowie aveva letteralmente fatto a pezzi il rock’n’roll, sopprimendo il suo personaggio più iconico, Ziggy Stardust, e dirigendo la sua rotta musicale verso la black music e il soul, facendosi così interprete di una nuova generazione che iniziava a farsi strada nel mondo giovanile, oramai distante dalle liturgie post sessantottine e da suggestioni ingenue e oramai svuotate da ogni significato.
“Diamond Dogs” e “Young Americans” avevano cancellato con due poderosi colpi di spugna il glam rock dall’agenda dell’artista di Brixton.
“Station To Station”, sublime capolavoro senza tempo, aveva altresì schiuso le sue porte verso nuove direzioni.
Bowie era di fronte a un bivio, posto al centro di un incrocio in cui confluivano tutte le esperienze musicali descritte poco sopra.
Non solo. Bowie è chiamato a riemergere dal baratro della tossicodipendenza.
La cocaina lo ha schiavizzato e ridotto ad una larva umana, la sua percezione della realtà è rimasta alterata dagli effetti nefasti della droga sulla sua psiche.
Catarsi umana e spirituale e rivoluzione in campo musicale.
Bowie vincerà su entrambi i tavoli.
L’artista britannico traccerà il solco di una propria strada, attraverso una nuova direzione musicale che saprà essere la sintesi di tutto ciò che le avanguardie e le correnti più ribellistiche del rock avevano dato vita negli ultimi anni.
Berlino diventa la base da cui si dipana la nuova esaltante avventura artistica del Duca Bianco, che in questa fase viene supportato dal genio di Brian Eno e dalla furia di Iggy Pop.
Questo cocktail darà alla luce quattro album formidabili, destinati a segnare in maniera indissolubile le dinamiche di quel 1977, facendo di quell’anno una sorta di confine, fra un “prima” e un “dopo”.
Del resto, le principali correnti esoteriche affermano che la realtà delle cose ha due aspetti: uno essoterico, esterno, ed uno esoterico, interno, segreto, accessibile solo agli iniziati.
Bowie è uno di essi. La sua iniziazione parte da lontano, dalla sua adolescenza, dal suo accumularsi di esperienze artistiche, personali e di vita vissuta, che hanno fatto di lui non soltanto un uomo di spettacolo e un cantautore di talento, ma un vero e proprio artista a 360°.
“Low” è il primo album del 1977, registrato verso la fine del 1976 fra gli studi francesi di Chateau d’Heroville e gli studi berlinesi di “Hansa By The Wall”
Brian Eno è il sodale di David Bowie, per parafrasare la Divina Commedia egli funge da moderno Virgilio, uno speciale accompagnatore che illustra ogni possibile alternativa alla creatività magmatica di un genio che osserva il nuovo paesaggio, che ha come sfondo la propria anima devastata, il proprio inferno personale che aspetta solo di essere al contempo raccontato e redento.
"Low" è la storia di una resurrezione umana che si colora di un'arcana magia che rende ogni suo brano un capolavoro per sé stesso.
La copertina del disco, uscito nel gennaio del 1977, riporta una splendida immagine di profilo tratta da “L’uomo che cadde sulla terra”, sotto il titolo del disco.
Chi ascolta l’album di primo acchito rimane stordito: ad una prima facciata composta da brani rapidi e nervosi, minimali nei testi e dominati dal ronzìo di una batteria che ritma una danza futuristica ininterrotta nelle sue evoluzioni sonore, fa da contrasto una seconda parte quasi aritmica, lenta, maestosa nel suo incedere grave, quasi solenne, che non concede alcunché all’ascoltatore reduce dai precedenti lavori di Bowie.
Quattro brani quasi completamente strumentali, in cui la voce di David appare semplicemente come uno strumento che si aggiunge agli altri, una fusione tra uomo e macchina che avrebbe prima sconvolto e poi ispirato i Kraftwerk di “The Man Machine”.
Definire questo album nel suo periodo è qualcosa di inquietante: se esiste una magia nella musica, questo album la esprime in modo chiaro ed inequivocabile.
Se esiste un album che esprime attraverso le immagini sonore lo stato d’animo di un’epoca, questi è ancora una volta Low.
La rabbia e la brutale ferocia dei gruppi punk, anarcoidi e ribelli senza una causa, le loro canzoni torride e feroci, gli atteggiamenti aggressivi, oltraggiosi, e carichi di disprezzo verso ogni autorità costituita, sia sociale che famigliare, trovano nelle composizioni di Low la loro espressione interiore e desolata, senza via di scampo. Lo stesso dicasi per i loro coetanei colti dalla “Saturday Night Fever”: in Low trovano le loro solitudini più intime e più nascoste, la loro anima incerta che cerca di annegarsi tra le luci stroboscopiche delle discoteche.
Se punk e disco sono il lato esteriore della musica del 1977, Low è l’anima interiore, straziata e decadente, che suggerisce loro le parole sul palcoscenico della vita.
"Low" è la rivincita dell'arte, quella con la "A" maiuscola, sulla banalità dozzinale di un certo rock che si nutre di riproposizione di cliché usati e abusati fino alla noia.
"Low" è rivoluzione allo stato puro.
E' la descrizione minuziosa di un'anima che riemerge da un tormento tanto profondo quanto disperante, una catarsi esistenziale e spirituale, il riemergere di un essere umano dalla paludi stagnanti di un mondo popolato di macabre pulsioni di morte e di fantasmi.
"Low" smonta e assembla da capo a piedi la musica popolare della seconda metà degli anni settanta, la rielabora, ricostruendola dopo averla decostruita, ne traccia una nuova direzione, secondo nuove "strategie oblique"
"Low" non è soltanto un album perfetto.
E' uno spartiacque, di fronte al quale si apre una iato, una distanza che spacca in due il rock, fra un passato e un futuro possibile.
"Low" è questa spaccatura, una sorta di cerniera che si apre e si chiude, a seconda delle intenzioni di chi lo ascolta, una sorta di test per verificare la capacità di comprendere e assimilare nuove direzioni per nuovi coraggiosi aspiranti esploratori che intendano cimentarsi in una sorta di Odissea.
"A New Career In A New Town" recita il titolo dello splendido brano che chiude la prima facciata del vinile, mentre "Speed Of Life" è l'inizio travolgente dell'album.
In questi due titoli si inquadra lo spirito che sta alla base di questo capolavoro assoluto della musica della seconda metà del ventesimo secolo.
La prima facciata, dominata da brani brevi e nervosi, che si alternato in un saliscendi di ritmo e melodia, ha come contraltare una seconda parte dove la musica è grave, quasi aritmica, le note sono distillate in un crescendo che non ha eguali nella storia della musica rock.
E questo è ovvio, in quanto "Low" è oltre il rock, oltre il pop, abbraccia la musica classica contemporanea.
E se "Sound And Vision" è un singolo che irrompe nelle classifiche inglesi, "Subterraneans" è lo splendore abbagliante di bellezza e di dolore che si svela attraverso le note di un sassofono la cui melodia straziante serra in una morsa l'anima di chi lo ascolta, portando uno spirito sensibile alla pura commozione interiore.
A sorpresa Bowie va in tour con Iggy Pop.
La strategia è perfettamente obliqua anche nella proposta concreta dei tour.
Nel tour Bowie riveste i panni volutamente dimessi del tastierista.
Il front man è Iggy Pop.
Le canzoni sono i vecchi cavalli di battaglia degli Stooges, più i nuovi brani dell'album che esce di lì a poco.
E fa centro.
"The Idiot", che vede la mano onnipresente di Bowie firmare le canzoni dell'album accanto ad Iggy, racconta un percorso musicale pazzesco.
Rock e musica elettronica sono fuse insieme. Ma non è una fusione "fredda". Al contrario.
"The Idiot" è un album notturno, malato, l'aria che si respira è viziata da mille peccati e mille tormenti.
Ma in fondo al tunnel si avverte una luce flebile, che si intravede quasi di sfuggita, ma basta a rompere il buio di notte gelida e senza stelle.
Canzoni come “Sister Midnight”, “Funtime” e “China Girl” raccontano l’orrore di una vita trascorsa pericolosamente su una corda tesa sopra l’abisso.
Il senso di vuoto interiore, l’angosciosa impotenza di porre un freno ad una vita che rischia di essere gettata alle ortiche emerge in tutta la sua devastante carica di rabbia e di dolore, che viene però sublimata e rielaborata in una chiave squisitamente futurista.
Il lungo brano “Mass Production”, blues elettronico metropolitano, è un capolavoro di formidabile spessore, che ipnotizza con le sue note dure e gravi, e i suoi suoni di assoluta avanguardia.
La voce di Iggy Pop è fantastica. Ben diversamente dallo stile urlato che offriva nelle performance infuocate con gli Stooges, il cantante americano stimola le tonalità vocali più basse, arrivando a delle vette interpretative formidabili.
Un album splendido, devastante, di assoluta avanguardia nel panorama della musica rock sua contemporanea.
Alla fine dell'estate esce il secondo album di Iggy Pop.
"Lust For Life", più convenzionale, più diretto, ma comunque confezionato accuratamente.
Un disco dalle sonorità elettriche, dure, ma allo stesso tempo estremamente raffinate nella loro evidente semplicità.
Parliamo innanzi tutto di “The Passenger”, canzone gioiello del disco, composta a quattro mani con Ricky Gardner, un brano affascinante, con il suo ritornello e il suo drumming incisivo ma mai brutale, che trasportano in un climax di puro godimento del pezzo.
La title track “Lust For Life” presenta una sezione ritmica incalzante, con la voce di Iggy che sembra fare uno sberleffo mentre canta. “Some Weird Sin”, “Tonight” e “Neighboorough Threat” sono pezzi elettrici di notevole spessore, in cui il rocker americano sfoggia interpretazioni eccellenti.
Questo album sancisce il rilancio definitivo della carriera dell’Iguana, che da quel punto in avanti sarà in grado di camminare sulle sue gambe.Ma il viaggio di David Bowie nel 1977 continua.
E arriva al suo apice.
Un apice che recita un titolo semplice e al contempo maestoso: “Heroes”
Bowie realizza con questo album una magia destinata ad essere ricordata e tramandata per almeno due generazioni dopo la sua uscita, producendo un album-manifesto che sarà fonte di emulazione ed ispirazione per una miriade di gruppi e di artisti che senza di esso probabilmente non sarebbero neppure esistiti.
Siamo su coordinate musicali che proseguono in modo coerente e sorprendente il discorso iniziato col precedente “Low”, portandolo a maturazione, in una sintesi mirabile che sa coniugare in un tutt’uno inscindibile l’avanguardia, l’arte popolare e la bellezza dei brani proposti.
Se "Low" poteva essere un album per "iniziati", "Heroes" rende tutti partecipi di una bellezza sfolgorante e struggente, che ammalia al primo ascolto, generando una sorta di compulsione uditiva che porta l'ascoltatore a girare il disco sul piatto per tantissime volte.
"Heroes" è un capolavoro.
Un album splendido, bellissimo, carico di forza e di energia, di note che diventano evocazioni, esortazioni dirette a spiriti che si annidano negli anfratti più oscuri dell'anima.
A volte il "caso" ci mette lo zampino, e sicuramente ciò che David Bowie osserva un giorno sotto il muro, il proprio amico e produttore Tony Visconti che si apparta con la corista della band, porta in sè qualcosa di incredibile.
Da una scena "rubata" quasi per caso nasce una canzone simbolo della gioventù di ogni epoca, perchè, nei fatti, "Heroes" racconta una situazione così semplice e all'apparenza quasi banale, dilatandola per sei lunghi minuti che profumano di eternità, un sogno vissuto ad occhi aperti, che celebra la possibilità dell'amore proprio nei pressi di una delle più tragiche e schifose manifestazioni dell'odio e della menzogna, il Muro di Berlino.
La prima facciata regala brani elettrici, intrisi di pulsazioni elettroniche, con una batteria dura che detta i ritmi.
Canzoni come "Beauty And The Beast", "Joe The Lion" e "Blackout" sono ideali compagni di viaggio per un tour che voglia conquistare il cuore e l'anima dei fan. "Sons Of The Silent Age" è la visione insieme oscura e profetica di un mondo che si consuma, che annichilisce se stesso sopra incubi che sembrano evocare mostri di un passato poco distante.
La seconda faccia è splendidamente giocata su un puzzle perfetto che miscela con sapienza i suoi momenti importanti.
Se "V2 Schneider" è la summa in pochi minuti di ciò che si può ottenere inglobando il rock'n'roll nella musica elettronica, i successivi brani strumentali "Sense Of Doubt", "Moss garden" e "Neukoln" sono la descrizione in musica di stati d'animo legati a sensazioni e luoghi. Un quadro perfetto che alla fine vede la sua conclusione attraverso un brano che sembra inserito per errore,
"The Secret Life Of Arabia" e la chiusura insieme ironica e sarcastica di un album epocale, il primo disco di un nuovo genere che di lì a poco vedrà tanti interpreti seguirne le orme.
Cinque anni dopo Ziggy, David Bowie è a tutti gli effetti il “leader” universalmente riconosciuto della musica “pop”, consacrandosi alla memoria futura con una canzone che celebra l’amore da vivere malgrado tutto e tutti, a dispetto di un mondo ove la violenza sembra il denominatore comune di ogni azione umana, e la desolazione che ne segue una conseguenza fatale e senza rimedio alcuno.
Solitudine, angoscia, un mondo in continuo mutamento.
Il vecchio ed il nuovo che si confrontano, si scontrano, vanno a braccetto senza conoscersi, magari detestandosi, ma rassegnati a convivere in un rapporto di amore-odio che non ha alternative.
Tutto questo è “Heroes”.
E gli “Eroi” sono coloro che sopravvivono in mezzo a tutto ciò.
Il Muro di Berlino è il simbolo di tutto questo.
Non si deve intendere in senso politico, beninteso.
Ma in senso esistenziale, come simbolo di una frattura dell’Essere, elemento di trauma e di isteria collettiva, prodotto di un Potere che ci riporta alla Fattoria degli Animali e soprattutto a 1984 di Eric Arthur Blair, in arte Gorge Orwell, scrittore scomodo dell’Inghilterra degli anni quaranta.
L’uomo e l’artista coincidevano.
Bowie era arrivato dove aveva voluto.”
Fonte - ( Paolo Rosati )
FOTO: da sx ( David Bowie, Iggy Pop, Lou Reed )